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Il vero missionario riproduce il volto di chi lo invia

È questa l’esperienza di ogni discepolo chiamato da Gesù a vivere la missione, momento che segna il passaggio dall’apprendistato del semplice simpatizzante alla affidabilità del seguace che entra a far parte stabilmente della famiglia di Cristo. Anche nei momenti in cui sembra che non ci sia nessuno, in cui sente più forte il vuoto della solitudine, il discepolo non deve farsi vincere dalla paura, perché Gesù ha già pronto per lui un compagno di viaggio col quale non solo la testimonianza diventa credibile (per il Deuteronomio erano necessarie almeno due persone per la validità di una deposizione), ma rende visibile il cuore dell’annuncio, ossia l’amore fraterno. La missione consiste anzitutto in una battaglia contro il male, contro quegli «spiriti impuri» che Gesù ha già scacciato ma che continuano a imperversare fino a quando esisterà un solo uomo sulla faccia della terra, perché Satana intende strappare da ogni creatura la somiglianza con Dio. L’unico rimedio contro questo piano diabolico è per i discepoli «riprodurre il volto di chi li invia» (Silvano Fausti), affinché gli uomini, vedendo riflessa su di essi l’immagine di Cristo, provino nostalgia della loro Origine. Ora, il volto di Gesù è il volto di un povero, e questo è il motivo per il quale i mezzi della missione sono mezzi poveri, «nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura». Non è assolutamente facile entrare in questa fiducia, in questo abbandono alla provvidenza di Dio. C’è sempre una parte di noi che vorrebbe essere più preparata prima di partire, avere un programma dettagliato di tutto quello che dovrà fare e dire, possedere la capacità di far fronte ad ogni evenienza e dimostrare così di essere all’altezza della situazione. Ma Gesù non chiede questo! Gesù ci chiama prima di tutto a stare con Lui e poi ci manda, così come siamo, limiti e difetti compresi. Non vuole dei super eroi a cui non manca nulla, perché i ‘super apostoli’ rischiano di esibire soltanto le loro doti, che possono anche essere attraenti per un po’, ma che non sono in grado di trasmettere il respiro dell’eterno. Solo un bastone: la fede che ti sorregge nel cammino; la determinazione per contrastare i pericoli che attentano alla fede stessa; il discernimento per battere il sentiero del bene. Si tratta di «uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione» e che soprattutto «accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento» (Enzo Bianchi). È uno stile quindi sobrio che si fonda poco sulla forza seducente della parola dell’evangelizzatore e molto sulla testimonianza di una vita rivestita da una sola tunica, l’habitus dell’appartenenza a Cristo. Per questo il discepolo è libero, come attestano i sandali che calza, tipici dell’uomo non più schiavo, e come tale non è ossessionato dal successo della missione, sia perché sa che questa non è sua ma di Cristo, sia perché non deve fornire alcun risultato a poteri umani ma è tutto orientato al richiamo dell’Assoluto. Da qui si comprende il gesto franco che Gesù simbolicamente evoca in caso di mancata accoglienza: «scuotete la polvere sotto i vostri piedi», secondo l’usanza di scrollarsi di dosso ogni residuo di terra pagana quando si entrava nella terra santa. Se da un lato il vangelo deve entrare nella «casa» per imperniare di verità e bellezza la vita quotidiana dell’uomo, dall’altro deve lasciare al destinatario la stessa libertà dell’annunciatore, senza «diventare assillanti, per non ottenere l’effetto contrario, quello di infastidire le persone e allontanarle definitivamente dalla fede» (Fernando Armellini). Il versetto conclusivo del vangelo attesta come il comando di Gesù prende corpo nella storia degli uomini; non è un’utopia ma è storia che si compie grazie alla fiducia di Cristo nei suoi e alla generosità di un obbedienza che genera altri figli del Padre celeste. Mettiamoci tutta la nostra fede per non interrompere questa fecondità che perdura ininterrotta da duemila anni.

 

Gesù sa bene quanto abbiamo bisogno dell’altro, di un ‘tu’ con cui condividere il cammino, di uno sguardo capace di comprendere il nostro, di una voce che ci ridesti quando lo scoraggiamento e la fatica si fanno sentire, di una mano che ci indichi il cielo quando la terra su cui camminiamo ci fa dimenticare da dove siamo partiti e dove stiamo andando. Il Signore, prima ancora di fornire direttive, intesse relazioni; prima ancora di affidarci un compito, ci dona un fratello e ci chiama ad essere custodi l’uno dell’altro. A due a due, dunque, non da soli.