L’apostolo innamorato, che aveva accettato l’eventualità di morire per mano dei Giudei, allorquando Gesù manifestò la volontà di andare a ‘svegliare’ Lazzaro; il discepolo perseverante, che interroga il maestro nel discorso d’addio per «conoscere la via» per la quale egli si sta inoltrando, adesso è travolto dal dubbio. Quali domande lo attraversano? Probabilmente le più drammatiche sono: perché perdiamo le persone che amiamo? Perché chi ama soffre fino a dover morire? Nessuno ancora aveva saputo dargli una risposta soddisfacente e questo potrebbe essere il motivo per cui egli si allontana per un tempo dalla comunità. Non è la presa di distanza di chi rinnega disperatamente tutto come Giuda, ma il bisogno di trovare un senso più accettabile al dolore della perdita. Tommaso, che ha talmente sofferto da non sapere se riuscirà più ad amare di nuovo, non riesce neanche a respirare in quella comunità chiusa in se stessa poiché non ha ancora ricevuto il respiro del Risorto, e cerca fuori motivi per tentare di nuovo nella vita. Certo, l’allontanamento è rischioso, perché gli ha impedito otto giorni prima di farsi trovare all’appuntamento con Gesù, tuttavia neanche oggi possiamo giudicare chi non si conforma subito all’ideale cristiano e cerca altrove, ma cerca sinceramente la verità e il bene. Eppure Tommaso torna, il suo senso di appartenenza alla comunità non è venuto meno, sente ancora il bisogno di condividere i suoi smarrimenti o forse anche le intuizioni che ha maturato fuori. Accade che, rientrando, è investito da quell’annuncio inedito, ancora più sconvolgente della stessa morte di Cristo: «per lui amore era partecipare con l’altro nella morte e non gli pareva possibile che amare l’altro significasse passare la morte» (Marko Rupnik). Egli non crede sia possibile una vita che supera l’esperienza visibile e tangibile della morte, crede che non si possa tornare indietro, e in questo ha ragione: bisogna andare avanti, pensare in maniera nuova. «Noi pensiamo che la fede sia il prodotto di un’esperienza: dopo che tu hai vissuto certe cose allora puoi cominciare a credere; invece la fede è un dono, qualcosa che anticipa l’esperienza» (Luigi Epicoco), un modo di guardare la vita con la certezza che l’amore non viene mai cancellato e ti accompagna sempre.
Per quanto si sforzi, Tommaso non può trovare da solo uno sbocco ai suoi tormenti e soltanto l’iniziativa gratuita di Gesù lo fa uscire dal limbo. Sembra che il Signore «otto giorni dopo» appaia di nuovo proprio per incontrare Tommaso. Non si dimentica di te il tuo Dio, e quando, come il figlio minore della parabola, hai imboccato la strada del ritorno a casa, si fa riconoscere come un Padre misericordioso e parla al tuo cuore ferito. Lo fa mostrando le sue ferite, perché per credere di nuovo nella vita e continuare ad amare abbiamo bisogno di guardare alla nostre ferite con gli occhi di chi, in forza di una comunanza con noi nel dolore, può dirci una parola autorevole su di esso fino a spiegarcene il senso. Le ferite di Gesù rimangono aperte, come le nostre, ma il Samaritano vi versa olio e vino, le fa brillare di un significato nuovo che porta gradualmente alla gioia. Per giungere a questa meta è necessario non solo accostarsi con coraggio all’esperienza della sofferenza altrui e propria, ma occorre farlo cercando in essa i segni dell’amore di Cristo lì presente, che ti dice di non temere se le trafitture della vita ti scarnificano, di non aver paura dei tuoi vuoti, perché proprio lì nasce, come sorgente traboccante dal costato di Cristo, il desiderio di una pienezza che solo Dio può dare. Tommaso non ha bisogno ormai di toccare, si sente perdonato nella sua incredulità e può pronunciare la più alta professione di fede del Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio!». L’itinerario si è completato e ora l’apostolo crede che queste mani saranno ancora capaci di sostenerlo, perché sono mani che compiono l’opera di Dio. Gesù conclude dichiarando beato chi va oltre il toccare e il vedere, fidandosi di una storia di vita risorta che il vangelo non smette di proclamare.