La Trasfigurazione è per i discepoli vedere la luce della vita di Cristo, che è vita di Dio in un corpo umano come il nostro. Da qui la percezione che il mio corpo, reso grigio dal dolore e dall’inconsistenza dell’esistenza, è in grado di raccontare la storia del mio incontro con Cristo Luce e di conseguenza cominciare a splendere di bellezza. Non è possibile ricevere la luce di Gesù se non ci si lascia condurre da Lui «su un alto monte, in disparte». Salire sul monte, che nella tradizione biblica è il luogo della rivelazione di Dio, implica la necessità di distaccarsi dalla pianura, dal proprio modo di concepire e cercare la bellezza per farsi dire da Cristo cosa essa realmente sia. «Sei giorni» prima della scalata, i seguaci del maestro hanno mostrato di essere ancora legati ad un’idea trionfalistica di bellezza, che per loro non può in alcun modo essere rappresentata da un Messia dal volto sfigurato, poiché Pietro rifiuta la croce prospettata a Cesarea. Adesso essi stanno davanti a Gesù che si trasforma in fonte della luce, lo contemplano nella sua essenza divina, lo vedono, se non come lo vede il Padre, nella visione più nitida che un uomo abbia mai potuto avere di Dio. Qual è il senso di questo evento totalmente gratuito e soprannaturale? Cristo non sta cedendo alle aspettative di gloria mondana dei suoi discepoli, ma sa che se la promessa della vittoria pasquale non si rende visibile per un momento, non si avrà il coraggio di seguire il maestro nella proposta di vita che Lui ha fatto sei giorni prima. Elia e Mosè che parlano con Gesù sono la testimonianza perenne dei Profeti e della Legge che lo hanno annunciato e che trovano compimento in Lui, perché Egli è la meta del cammino di ricerca della bellezza che l’uomo fa nel corso della storia e che la Scrittura attesta nelle sue incertezze, cadute e riprese. Pietro vorrebbe costruire tre capanne per rendere permanente una tale situazione di gloria sulla terra, anticipando, senza passare per il Calvario, il tempo messianico nel quale i popoli si sarebbero radunati a Gerusalemme per la festa delle Capanne (Zaccaria 14,16-19). Ancora una volta emerge nei discepoli la paura di affrontare il duro cammino della sequela. Ciò è un forte richiamo contro la possibile tentazione di usare la preghiera e la fede, luoghi della nostra trasfigurazione, come rifugio perché abbiamo il terrore di affrontare la vita. L’esperienza della luce divina è autentica se ci immette nuovamente là dove consumiamo la nostra vita, rendendoci capaci di riprodurre il volto di Gesù nei contesti esistenziali che talvolta sembrano aver estromesso Dio, analogamente a Gesù che riproduce il volto del Padre. È proprio il Padre che pone il sigillo su questo evento, dandoci la chiave per entrare nel mistero della bellezza: l’ascolto della parola del Figlio. L’ascolto lungo la via è la via della bellezza. Scendendo dal monte della visione, ciascuno sarà accompagnato dalla parola di Cristo che gli ricorderà l’amore contemplato e lo istruirà per poter rendere presente nel mondo lo stesso amore. Il compito del cristiano è testimoniare questa bellezza che, come per Gesù, dall’interiorità risplende sul volto e persino sulle vesti, cioè nelle esperienze che rivestono la nostra vita. Una volta acquisita la luce, non solo cambiamo noi, ma vivremo la gioia di vedere trasfigurato il mondo intorno a noi. Questa non è l’illusione di chi ha fatto un’appagante esperienza di preghiera che lo fa sentire ingenuamente protagonista di un improbabile cambiamento sociale, ma è la natura stessa della luce, che si irradia donando vita a gioia. «Se tu cambi, il mondo cambia; se tu non fai l’esperienza di questo amore, le vesti di questo mondo rimangono grigie. Non è cambiando d’abito che noi cambiamo la nostra vita, ma lasciandoci raggiungere da questa luce» (Luigi Epicoco). Come i tre, anche noi “teniamo la parola” fino alla risurrezione, affinché risorga e risplenda sempre in noi la bellezza di essere figli di Dio