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Il cuore «aperto» di Gesù cura la debolezza umana

Come domenica scorsa aveva liberato l’uomo e la sinagoga dalla presenza del Maligno, così nel vangelo odierno guarisce la suocera di Pietro e con lei tutta la casa. Sì, perché quando in una casa la mamma sta male, è la famiglia intera a fermarsi. Una semplice febbre, che non determinerà un miracolo eclatante, ma rivela la ricchezza di umanità con cui la divinità incontra la nostra debolezza. Sembra un paradosso, ma Dio si accosta all’uomo da uomo fino in fondo, ossia da persona che non si sottrae al contatto con l’uomo che non riesce ad essere se stesso. Questa donna infatti risulta immobilizzata nella sua capacità di servire ed è figura di tutti i mali che ci fanno ripiegare su di noi, impedendoci di amare gli altri. Dinanzi ad una umanità bloccata, diventa decisivo che qualcuno la presenti a Gesù, altrimenti, senza di Lui, «ricorriamo a dei rimedi che, invece di guarire, peggiorano la malattia» (Fernando Armellini). È la maternità della Chiesa, che interpreta le nostre febbri come la premessa per l’incontro con Cristo e riconosce in Lui l’unico in grado di intervenire efficacemente contro il male. Egli non pronuncia neanche una parola, perché i discorsi sul senso della sofferenza sono quasi sempre insopportabili per chi vive il dolore e cerca soltanto un contatto amorevole, come un bambino rassicurato unicamente dalla presenza della mamma. Il medico divino “fa risorgere” la donna e la prende per mano, trasferendole così la sua potenza di vita. Anche noi dobbiamo “farci prendere la mano” da Gesù, non per essere trascinati da Lui contro la nostra volontà, ma per tornare al senso vero della nostra libertà, che per condurci al bene è chiamata ad obbedire alla verità di Cristo. L’intervento di Gesù rigenera la vita e riaccende la luce di casa, perché il primo gesto della donna sarà di servire. La vera guarigione allora consiste nell’uscire da sé e occuparsi della felicità altrui, assumendo tale stile di servizio nella normalità dell’esistenza. L’altra conseguenza della guarigione è infatti che Dio non viene ad estraniarci dalla vita, ma ci restituisce alla normalità delle nostre occupazioni, permettendoci di stare nelle nostre cose, perché per chi è nella prova è già una grande conquista vivere la normalità. Da questo miracolo “privato” si passa poi alla dimensione pubblica. Alla sera, finito il sabato e superata la proibizione di spostarsi e di portare pesi, la gente raduna davanti alla porta di quella casa tanti “pesi” umani, uomini derelitti, che fino a quel momento avevano trovato tante porte chiuse. Tale raduno è determinato dalla fede di chi crede che oltre quella porta c’è la forza di una parola che cura ogni febbre. Tranne il lebbroso, l’emorroissa e la sirofenicia, tutti gli altri malati nel vangelo sono accompagnati a Gesù da qualche fratello che ancora una volta riconosce in Lui l’unico Salvatore. Gente che sta davanti a una porta che si apre, paragonabile al cuore di Cristo cui bussare e che poi si squarcerà completamente sulla croce, garantendo a tutti gli uomini che scelgono di attraversarlo l’apertura verso il regno del Padre. I demoni non sono autorizzati a parlare, pur conoscendo Gesù, perché una conoscenza di Lui prima della croce e contro la logica della croce è diabolica. Ma all’improvviso, di buon mattino, uno stacco: il tempo della preghiera. Gesù è maestro anche per questo, perché ci insegna che dialogare col Padre permette di riscoprirsi figli e di comprendere il cammino da compiere. Mi ricordo chi sono quando mi ricordo chi è mio Padre e il contatto con la fragilità umana è possibile solo se è preceduto dal contatto intimo col Padre. I discepoli quasi inseguono Gesù e Pietro lo rimprovera per la sua assenza perché in realtà cerca l’uomo di successo. Ma Gesù non si lascia imprigionare, va altrove per annunciare a tutti il regno. Egli è venuto per andare altrove, e così facendo spinge anche l’uomo ad andare oltre se stesso per seguire l’amore: «altro è vedere la storia come una serie di cose che ci devono appagare e altro è vederla come la storia di una formazione costante all’arte di amare» (Fabio Rosini).