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Una Parola severa contro l’ipocrisia autoreferenziale

{module AddThis}Essi erano molto vicini alla gente rispetto alla setta dei sadducei, che miravano al potere e per questo cercavano di tenersi buoni i romani, inoltre per mantenere la purità studiavano la Torah e cercavano di osservarla. Possiamo dire che avevano una certa “integrità morale”, una morale che in qualche modo poteva diventare una testimonianza per edificare e guidare la gente, non gli si poteva rimproverare nulla, oggi potremmo dire: “sono gente perbene”. Tutte queste osservazioni però ci pongono ancora di più in un atteggiamento di domanda quando leggiamo dei loro contrasti con Gesù, che sfociano non solo in rimproveri ma anche in “minacce” che egli rivolge a loro quando arriva a dire: “guai a voi farisei ipocriti”. Questa “minaccia” viene ripetuta, con qualche leggera variazione, per ben sette volte e costituisce l’invettiva che occupa l’intero capitolo 23.

Come abbiamo osservato il rimprovero non può essere legato solo ad un atteggiamento “morale”, conoscenza di norma e sua osservanza, ma mira alla correzione di qualcosa che riguarda la coscienza della persona costituita nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. La ricerca della causa del rimprovero può essere illuminata dal contesto e in modo particolare dalle parole che lo precedono. Dopo aver definito sé stesso come il grande comandamento di Dio, Gesù pone ai farisei una domanda circa l’origine del Messia: “Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?” (Mt 22,42). I farisei rispondono affermando la discendenza davidica e Gesù di rimando, citando il salmo 110, attraverso un nuovo interrogativo li pone su una nuova strada: “Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?” (v. 45). Questa domanda non ha la funzione di tappare la bocca ai suoi interlocutori ma di disporre i lettori a una risposta che Gesù sta per dare. Quali elementi hanno in mano gli scribi e i farisei per arrivare alla verità che viene loro richiesta? Da una parte la Torah che va letta e interpretata, dall’altra la presenza di Gesù e delle sue opere. Essi sono concentrati esclusivamente sulla legge, e dandone un’interpretazione parziale non solo non sono capaci di riconoscere l’origine del Messia ma hanno tolto alla legge la sua autorità asservendola ai loro bisogni e ai loro scopi, ne hanno fatto un vanto per essere ammirati dagli uomini. Il rimprovero di Gesù vuole colpire questa ipocrisia, che non va colta semplicemente nella non corrispondenza tra il dire e il fare, come se tutto si giocasse sullo sforzo umano di corrispondere nell’agire a una legge conosciuta ed accettata. Il rimprovero di Gesù vuole eliminare la radice velenosa più profonda che riguarda la comprensione e l’osservanza dei precetti di Dio, nella loro intenzione più perversa. La legge non va osservata per essere ammirati dagli uomini, ma per glorificare Dio ed edificare il prossimo.

Il dire e non fare dei farisei non solo rivela la loro cattiva intenzione, ma nello stesso tempo manifesta il loro grande problema nella sua verità, essi sono totalmente ripiegati su loro stessi e la loro opera, anche se fatta “in modo corretto”, diventa malvagia in sé stessa poiché non apre la persona alla relazione verticale e orizzontale, ma la chiude dentro il loro orgoglio e il loro vanto. È la situazione che denuncia il profeta Malachia quando dice: “Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dare gloria al mio nome. … Vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento”. Ma è anche la situazione che si è creata a Corinto e che Paolo corregge con queste parole: “Nessuno ponga la sua gloria negli uomini” (1Cor 3,21); “Non vi gonfiate di orgoglio favorendo uno a scapito di un altro. Chi infatti ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,6-7). In contrasto a questi personaggi viene opposta e proposta la figura di Cristo che rimanda immediatamente al suo insegnamento e alla sua relazione filiale con il Padre. Da questo punto di vista è sottinteso che la differenza tra Cristo da una parte gli scribi e i farisei dall’altra è legata non solo a quello che dicono ma soprattutto a quello che fanno. Le opere di Cristo, infatti, non sono compiute per ottenere l’ammirazione degli uomini, come se egli ne avesse bisogno e questo fosse il solo modo per ottenerla, ma sono compiute per salvare gli uomini e per glorificare il Padre. Con questa intenzione l’opera apre alla duplice relazione, uscendo dalla sterilità del vanto introduce colui che la compie alla relazione con Dio e alla relazione con il prossimo. Nella parte finale si può notare un’insistenza sul contrasto tra l’identità reale, quasi ontologica, e l’immagine o la pretesa che l’uomo vuole dare di sé stesso, Il riconoscimento che vuole ottenere dagli altri rimane in realtà solo una pretesa o un’illusione poiché il suo agire è inficiato in partenza e non potrà mai ottenere quello che appartiene solo a Dio e che solo lui per mezzo di suo Figlio può e vuole dare.