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Dalla pretesa del merito al dono della gratuità

{module AddThis}Tutto parte da qualcosa di intimo e profondo e per certi versi nebuloso di cui non sempre riusciamo a delineare i contorni ma che ci porta davanti al Signore per chiedere: «Maestro che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?».
Tra le tante richieste che possiamo fare a Dio, questa domanda, anche se non sembra, è una tra quelle capace di aprire davanti a noi un mondo in cui termini come felicità, bontà, tesoro, denaro, lavoro, ricchezza, ultimo e primo, vogliono e devono assumere valori diversi, perché solo attraverso questi significati riescono a costruire il ponte che riduce e colma la distanza che c’è tra noi e Dio, tra la ricerca del nostro desiderio e Dio che si fa trovare. Nella bellissima pericope che ci presenta la prima lettura della XXV domenica del tempo ordinario di questo anno liturgico tratta dal libro del profeta Isaia (55,6–9) tre sono i verbi che corrispondono a Dio che si è fatto vicino per farsi trovare: cercare, abbandonare e trovare. Questi verbi ci aiutano a leggere la pericope evangelica che in modo irruento ci sbatte in faccia il paradosso cristiano e ci chiede di convertire il nostro cuore abbandonando la logica umana meritocratica.  
Questa operazione ci chiede altresì di tornare qualche versetto indietro, esattamente a Mt 19,16, dove il “tale” – la sua indeterminazione è il modo più bello per identificarci – chiede a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». La risposta del “Maestro” indirizza alla bontà non solo come fine ma anche come percorso. «Solo Dio è buono», ma cosa deve fare l’uomo per partecipare di questa bontà? L’osservanza dei comandamenti non basta, bisogna mettersi alla sequela del Figlio e rinunciare alle proprie ricchezze.
Sembra che la parabola degli “operai dell’ultima ora” sia raccontata da Gesù proprio per spiegare cosa significhi che gli “gli ultimi saranno i primi”. Il racconto è molto semplice, un padrone di casa esce a prendere lavoratori a giornata per lavorare nella sua vigna, si accorda con loro per un denaro e li manda a lavorare. L’attenzione si ferma per la prima volta sull’invito che rivolge agli operai delle nove, in questo caso non viene specificata l’entità della paga ma viene detto: «quello che è giusto ve lo darò». Questo sottinteso sembra sia confermato quando prende gli operai delle ore successive, nemmeno con gli operai dell’ultima ora viene specificato il prezzo della paga, ma si chiarisce il motivo dell’ozio: «Perché nessuno ci ha presi a giornata».
Quello che poteva sembrare umanamente normale si complica al momento della paga, la prima cosa strana è che il padrone chiede al fattore di saldare gli operai iniziando dagli ultimi fino a primi. Quando arrivano i primi pensano di ricevere di più, una logica che viene espressa pubblicamente dal mormorio nel momento in cui ricevono anch’essi un denaro. La loro logica remunerativa è legata alle ore di lavoro che hanno fatto. Se questo è normale ed addirittura giusto nelle cose umane, possiamo dire altrettanto per le cose di Dio? Già al momento del primo annuncio della passione Gesù aveva rimproverato Pietro di pensare le cose degli uomini e non le cose di Dio (Cfr. Mt 16,23). A questo punto Gesù chiede un passaggio ulteriore non solo pensare alle cose di Dio, ma pensare alle cose di Dio come le pensa Dio: «Non mi è permesso fare ciò che voglio delle mie cose?». Questa domanda è seguita da un altro interrogativo: «Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?», insieme costringono l’ascoltatore ad analizzare i pensieri del proprio cuore.
Davanti al comportamento “strano” del padrone di casa agli operai della prima ora viene offerta una possibilità di cambiare logica. E siccome il padrone di casa può benissimo disporre delle sue cose, il loro mormorio rivela e denuncia l’occhio che si fa cattivo davanti alla bontà del padrone. Questa nuova luce e ci obbliga a ritornare al “tale ricco” che voleva fare cose buone e concludere che il primo passo per fare cose buone è cambiare il proprio sguardo.