{module AddThis}L’esperienza della vita quotidiana nel corso dei secoli ha insegnato che siamo tutti parte integrante dell’umanità e, come ci ricorda Hemingway, la campana suona per tutti noi, per ricordarci che l’individualismo non è una buona cosa poiché noi viviamo anche in funzione degli altri, ogni cosa che noi facciamo si ripercuote su tutto ciò che ci circonda, appunto perché noi siamo un tutt’uno con il mondo. Certamente in queste riflessioni c’è il tentativo di far prendere coscienza che ognuno è responsabile del fratello e nello stesso tempo di infondere fiducia che nel fratello possiamo trovare un aiuto. Da questa coscienza nascono tentativi di creare “società” in cui l’uomo possa trovare il luogo dove il singolo possa donare sé stesso e ricevere l’altro. All’interno di queste società l’uomo organizza delle istituzioni e delle associazioni che consentono in modo e con fine diverso, questo incontro tra il donare e l’accogliere.
Ma quando parliamo di comunità dobbiamo certamente fare una distinzione, non solo quando la discussione è posta tra un credente e un non credente, ma anche quando la stessa viene fatta tra un cristiano e un non cristiano. Il profeta Ezechiele ci parla non di un aiuto materiale ma spirituale, ciò che viene messo in gioco e affidato alla responsabilità del profeta è la vita stessa dell’Israelita. L’uomo, in questo caso, diventa la stessa bocca di Dio, il compito della sentinella non è quello di valutare l’eventualità della correzione dell’empio ma di ammonire con decisione la condotta di quest’ultimo perché si possa salvare.
In questo caso non è il fratello che redime il fratello ma Dio che salva attraverso il fratello. Vien così definita una relazione particolare all’interno della comunità e della storia. La vita dell’uomo come percorso di redenzione viene posta da Dio nella libertà del singolo e affidata alla cura del fratello, negare il ruolo e la responsabilità che viene data a ognuno significa troncare sul nascere l’idea stessa della comunità come luogo teologico che Dio ha donato all’umanità. L’incarnazione del Figlio di Dio e il suo ministero pubblico non ha cambiato questa realtà anzi l’hanno illuminata e l’hanno resa e la rendono possibile. Prima di costituire la nuova famiglia umana con la sua morte in croce e con la risurrezione Gesù l’ha annunciata nel suo ministero.
In diversi punti del suo insegnamento l’attenzione è posta sulla comunità, tra questi il capitolo diciotto del vangelo di Matteo in cui Gesù, dopo aver corretto l’idea di “grandezza” dei discepoli, indica come vivere e rendere presente all’interno della comunità il regno dei cieli. Lo spunto gli viene dato dai discepoli che gli chiedono: «Chi è dunque il più grande del regno dei cieli?», Gesù fa capire che per essere grandi nel regno dei cieli prima bisogna entrarci, e per entraci bisogna convertirsi e diventare come bambini, cioè come dei bisognosi.
La grandezza del regno dei cieli fa riferimento all’umiltà, all’accoglienza e alla testimonianza che si devono tenere con gli ultimi, perché è volere del Padre che è nei cieli che non si smarrisca nessuno dei piccoli. Il regno dei cieli pretende un duplice atteggiamento, da una parte l’umiltà dell’ascolto, dall’altra la responsabilità della correzione, non sono semplici consigli per il vivere comune ma indicazioni precise che fanno riferimento alla vita futura. La comunità non è un’entità giuridica astratta a cui si fa riferimento per dirimere tutte le questioni che possono nascere all’interno di un gruppo di persone ma il luogo dove i discepoli si riuniscono nel suo nome di Gesù. Un’intenzione che diventa condizione necessaria e sufficiente per avere la presenza di Gesù, non come un diritto che il singolo, in qualsiasi momento e in qualunque posto, può esercitare come pretesa ma un dono che l’Emmanuele concede ad almeno due o tre persone convenute nel suo nome.
Nella sua grande bontà il Padre che nei cieli non ha dato solo il precetto dell’amore verso il prossimo, ma lo ha reso possibile attraverso la presenza del Figlio all’interno della comunità.