Il bisogno per chi ascolta di sapere di più corrisponde alla necessità di chi parla di rivelare meglio. Questo regno porta con sé richieste esigenti, si realizza nella sua pienezza solo se viene annunciato ed esteso, ma se non viene specificata la sua natura e il suo valore difficilmente l’uomo che ascoltare si muoverà da sé per entravi.
Per tale ragione il vangelo di Matteo offre ai suoi lettori un intero capitolo in cui viene riportato tutto quello che Gesù ha detto riguardo a questo argomento. Parlare di una realtà che non riguarda solo la vita presente, ma anche quella futura richiede uno strumento linguistico che permetta sì di presentare i suoi elementi e spiegare i suoi significati, ma anche di penetrare nella sua potenzialità dinamica e storica che solo il passare del tempo rivelerà nella sua pienezza e verità. Strumenti che permettano all’uomo ascoltante di essere in condizione di scegliere oggi il bene presente e quello futuro. Le tecniche linguistiche che Gesù usa per raggiungere questo scopo sono la parabola e la similitudine, questi artifici retorici rivelano cose nascoste fin dall’origine del mondo.
Il capitolo tredici è composto da sette parabole, la prima funge quasi da introduzione poiché spiega la funzione delle parabole, la gratuità del seminatore e la disponibilità del terreno, poi seguono le atre sei, con una perfetta corrispondenza tra la seconda e la settima, entrambe con riferimento escatologico, in mezzo le quattro centrali si concentrano sul dinamismo è la preziosità del regno. La liturgia della parola di questa domenica riporta tre parabole–similitudini che sono caratterizzate da tre elementi: la zizzania, il seme di senape e il lievito, la pericope è incorniciata da due espressioni che in qualche modo la definiscono e la aprono all’interpretazione.
La frase che introduce la parabola è: «Il regno dei cieli è stato reso simile a un uomo che seminò il buon seme nel suo campo», certamente qui non si sta portando un esempio ma si sta descrivendo la dinamica dell’incarnazione, quello che è proprio di Dio, il regno dei cieli, la sua regalità, il suo dominio, le sue relazioni, la sua vita, si rivela in Gesù Cristo che lo vuole veicolare attraverso il seme buono. In un secondo momento il seme buono a livello parabolico viene fatto corrispondere al grano, in modo tale che a questo possa essere opposta la zizzania. Essa, infatti, si oppone alla bontà del grano, che con il suo valore simbolico di riferimento al pane che nella Palestina era il cibo fondamentale per nutrire la vita, non come sostituto ma come impedimento, essa viene seminata in mezzo al grano dal nemico perché nel periodo della crescita e della maturazione possa togliere spazio al grano. Il male non ha nessuna funzione se non quella di limitare e ostacolare il bene. La cura del bene e della sua crescita è la priorità di Dio, niente di tutto quello che il Padre ha affidato al Figlio deve essere perduto.
Il seme buono mentre viene seminato è il più piccolo, come il granello di senape, tra tutti i semi, ma ha dentro di sé un potenziale enorme. Ecco perché l’essenzialità di curare la crescita del bene, diventa luogo di accoglienza e di vita. Il nido che vengono a fare gli uccelli non è solo la loro casa ma soprattutto la possibilità di fecondare e moltiplicarsi. Come la similitudine si legava alla parabola attraverso il seme così la seconda similitudine si aggancia alla prima attraverso il dinamismo del lievito. Questo elemento in sé stesso non può essere mangiato ma serve per far fermentare la pasta, è essenziale per il pane, “quel seme iniziale” esprime ora la sua bontà non solo perché nutre la vita, l’accoglie e permette la sua trasmissione, ma anche permette alla pasta di diventare pane, cibo vitale. La parte finale del brano è occupata dalla spiegazione della parabola della zizzania che conclude la prima parte del capitolo. Essa si conclude con una frase di Gesù che merita considerazione: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda». I figli del regno attraverso l’ascolto devono diventare giusti, si capisce che il «convertire» iniziale concerne l’ascolto della parola di Dio.