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L’uomo si rafforza e vive con l’ascolto della Parola di Dio

{module AddThis} Ma che cosa e quanto Dio chiede quando attraverso il profeta dice “Porgete l’orecchio, venite a me e vivrete”? “Porgere l’orecchio” è una condizione che riguarda il singolo, oppure lo spazio di ascolto di interpretazione di comprensione richiede una comunità? Non un gruppo di persone che autonomamente si costituisce e indipendentemente si riunisce, ma un’assemblea che la parola convoca e costituisce? Il problema dell’interpretazione della parola non è di poco conto, non riguarda il singolo e se vogliamo, in senso stretto nemmeno le singole comunità, ma è una questione ecclesiale che trascende la stessa professione di fede e in alcuni casi si pone come fondamento etico non solo per il credente ma per l’uomo in quanto tale. C’è una forza oggettiva ed intrinseca alla parola che è capace di ottenere quello che Dio vuole, la misericordia di Dio e il legame di alleanza eterna che egli vuole costituire si ottiene attraverso l’ascolto della sua parola, l’unica capace di superare la distanza che c’è tra noi e Dio. La durezza e l’impotenza di costatare che quando Dio rivela: “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”, viene immediatamente superata dall’apprendere che questo abisso viene superato dalla Parola, l’unica capace di partire da Dio e ritornare a lui e, in questo viaggio, capace di operare quanto desidera, di compiere il suo mandato.
La parola diventa essenziale nel ministero di Gesù, già all’inizio viene riconosciuto come uno che insegna con autorità e poi la usa per insegnare, rimproverare, correggere, guarire e salvare. Nella sua predicazione si serve di alcuni mezzi linguistici, che assume e molte volte caratterizza in modo nuovo, tra questi l’uso della parabola. La parabola del seminatore viene riportata dai tre vangeli sinottici e viene posta come fondamento delle altre parabole: «E disse loro: “Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?”», è la prima del vangelo di Marco e apre il capito tredici del vangelo di Matteo, dedicato alla natura del regno dei cieli. In un primo momento il seminatore Gesù sembra poco accorto o quanto meno distratto, poiché parte del seme va a cadere in terreni non fertili, qualcuno ha pensato alla sovrabbondanza con cui Dio concede la sua parola, ma forse il testo vuole imporre un significato più profondo in cui il terreno buono e la comunità dei discepoli di Gesù devono essere strettamente collegati. Tra il racconto della parabola e la sua spiegazione c’è una domanda dei discepoli che pone la questione della modalità dell’annuncio, dell’ascolto e dell’accoglienza. Senza questa parte la parabola perderebbe molto del suo carattere ecclesiale e si ridurrebbe a un consiglio evangelico rivolto al singolo. Attraverso questa parte si definisce la differenza tra il “loro” e il “voi”: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”. Questa risposta, simile a quella riportata nel vangelo di Marco, ci fa capire che ai discepoli viene donato qualcosa che viene direttamente da Dio, dedotai è un passivo divino, che li costituisce comunità e che li pone in una posizione diversa dagli altri. Cercando di comprendere meglio il brano forse l’attenzione non va posta sul perché a “quelli di fuori”, così li definisce Gesù nel vangelo di Marco, non è dato, ma sul perché a quelli di dentro è dato. Il vangelo è stato scritto ed è rivolto a “quelli di dentro”. C’è una volontà ben precisa rivolta ai discepoli come testimoniano le parole: “A chi ha verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha verrà anche tolto quello che ha”. Questa volontà si pone in continuità con il disegno di Dio testimoniato anche dal profeta Isaia. È proprio a lui che Gesù rimanda i discepoli per la piena comprensione. Il riferimento è al capitolo sesto, dove dopo la vocazione Isaia viene mandato ad annunciare la volontà di Dio di eliminare tutto e di ripartire da “un resto”: “Ne rimarrà una decima parte, ma sarà ancora preda alla distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo è il ceppo”. Da questo ceppo è spuntato un germoglio, in virgulto dalla radice di Iesse (cfr. Is 11,1), questa profezia è infatti, un riferimento diretto a Gesù, così come conferma il vangelo di Giovanni: “Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui” (Gv 12,41). Nel momento in cui si compie la profezia il loro indurimento e il loro rifiuto non fa che svelare e lasciare il passo a Gesù che costituisce con la sua presenza e con la sua parola il nuovo resto d’Israele, la nuova comunità il nuovo terreno che accoglie la parola e porta frutto. Quello di cui ci parla il vangelo non è più un’eventualità, ma il compimento della profezia e quindi la nuova realtà. Matteo vuole descrivere la nuova realtà, ponendo la parabola del seminatore all’inizio del capitolo tredici vuole comunicare ai suoi lettori che tutte le altre parabole per essere ascoltate e comprese hanno bisogno di questo terreno fertile, di una comunità in cui la parola deve essere accolta interpretata e compresa. Quello che è stato detto viene confermato da due indizi ulteriori, il primo le parole che rivolge ai discepoli: “Beati i vostri occhi, perché vedono e i vostri orecchi, perché ascoltano”, la beatitudine non è un merito, ma una scelta e un dono di Dio. Il secondo motivo viene svelato dai discepoli stessi che in un secondo momento chiedono a Gesù la spiegazione di un’altra parabola: “Spiegaci la parabola della zizzania e del campo” (Mt 13,36).