Lo sguardo degrada verso quell’immagine sopita proiettando su di essa la pace ed il silenzio che lo circondano: quelli della preghiera che abita questo luogo privilegiato, il Monastero della Visitazione di Santa Maria, «cittadella di Dio, cenacolo e punto di riferimento» per la città stessa, come amava definirlo l’arcivescovo Sorrentino. Una benedizione per la città di Reggio nei frutti di grazia che vi arreca la preghiera incessante e continua che è l’offerta di vita delle suore dell’Ordine fondato da San Francesco di Sales, una protezione che si esplica specialmente nella missione di essere centro spirituale e di attrazione dei cuori verso il Cuore di Gesù. È nel Santuario del Sacro Cuore del Monastero infatti che le parrocchie della città nel mese di giugno confluiscono a turno per i pellegrinaggi. E nel giorno del Sacro Cuore, venerdì 23, si è svolta qui, come ogni anno, la Messa presieduta dall’arcivescovo Giuseppe Fiorini Morosini e seguita dalla tradizionale processione eucaristica. In questa occasione la benedizione si è fatta gesto concreto, quando l’arcivescovo ha sollevato in alto l’ostensorio per rivolgerlo verso quella città non così distante e solo apparentemente sopita, effondendo su di essa la benedizione e la protezione che da questo luogo emanano, come incarnazione stessa dell’amore a Dio attraverso l’esempio e il sacrificio delle vite consacrate. «Celebrare la festa del Sacro Cuore in questo monastero– aveva detto nell’omelia – ha il significato di un richiamo forte a ripensare al nostro rapporto con Dio, a chiederci che peso ha Dio nella nostra vita. Ogni monastero di clausura è un segnale che ci invita ad andare al di là di un cristianesimo fatto di convenzioni e di scadenze liturgiche, di gesti ripetitivi, per capire se emarginiamo Dio o se invece viviamo la nostra vita terrena nella prospettiva di quella eterna: queste donne hanno scelto di vivere un legame profondo con Dio perché anche noi potessimo imparare che Dio deve contare nella nostra vita». È il richiamo ad un fede vissuta non a singhiozzo, nei sacramenti che scandiscono solo superficialmente le scelte di vita o nei comportamenti di facciata, quello che l’arcivescovo definisce una sorta di «ateismo pratico», ma ad andare al cuore della fede per aprirsi al colloquio con il Signore. Nel dialogo personale con il Cuore di Gesù si riesce a comprendere il senso della sofferenza, a vincerne la paura, a trovare il modo per affrontarla: «solo così – ribadisce l’arcivescovo – potremo capire Dio che parla attraverso il Cuore trafitto del Figlio». Un invito a recuperare innanzitutto il rapporto personale con Dio per concretizzarlo nella propria vita, nelle relazioni familiari, sociali, nel lavoro, per “guardarsi attorno”, «cogliendo nella nostra città il peso di questa presenza ed essere testimoni credibili».
Antonia Cogliandro