{module AddThis}– Perché bisogna inginocchiarsi per pregare? Se volessi pregare davvero, le dico io cosa farei: me ne andrei tutta sola in un grande campo, oppure nel cuore di un bosco, e guarderei in su verso il cielo, su, su, su, verso quell’incantevole cielo azzurro, al cui azzurro sembra non ci sia fine; e allora sentirei proprio una preghiera. Beh, sono pronta. Cosa devo dire? Marilla era imbarazzata più che mai, aveva pensato di insegnare ad Anna la classica preghiera dei bambini, ma si accorse che non era adatta a quella bambina che non sapeva nulla e non si curava affatto dell’amore divino, dato che non le era stato mai tradotto nei termini dell’amore umano. – Sei abbastanza grande per pregare a modo tuo, Anna – disse alla fine. – Ringrazia soltanto Dio per le sue benedizioni e chiedigli umilmente ciò che desideri”.
Questo stralcio tratto da Anna di green gables, di L.M. Montgomery, ci dimostra che, con il passare degli anni, in posti diversi, all’interno del cristianesimo si fa tanta fatica a pregare secondo quello che Gesù ci ha suggerito nel vangelo. La nostra modalità oscilla tra il rigidismo di Marilla e lo spontaneismo di Anna e non ci accorgiamo che tutto questo non dipende dalla maniera di pregare, ma da una mentalità sbagliata, acquisita nel tempo, di quello che Gesù ha detto e ha fatto. La parola di Dio della liturgia della XVII domenica del Tempo Ordinario ci spinge a immergerci nella preghiera, e attraverso questa definisce Dio e noi. Poiché se è vero che noi preghiamo secondo il Dio che conosciamo, è altrettanto vero che dal contenuto e dalla modalità della nostra preghiera possiamo verificare chi è il Dio che stiamo invocando e con cui stiamo dialogando.
Sulla necessità della preghiera non si discute, chi ammette l’esistenza di un Dio personale ritiene opportuno entrare in relazione con lui e comunicare. La preghiera di richiesta sembra sia quella più comune e per alcuni versi più corrispondente, partendo dalla costatazione che l’uomo percepisce sé stesso in uno stato di bisogno e si rivolge a Dio per ottenere ciò che chiede, confidando non solo nell’onnipotenza divina, ma anche nella sua bontà. Il rischio che si corre in questo tipo di preghiera è duplice, se si ottiene ciò che di domanda, allora Dio potrebbe sembrare un semplice distributore di cose o realizzatore di desideri; se, invece, non lo si ottiene, allora si potrebbe pensare che Dio sia ingiusto, non ci abbia ascoltato e addirittura negare la sua esistenza, compromettendo in tale modo attraverso la richiesta quel poco di esperienza spirituale che pensiamo di avere.
Colui che ha sperimentato l’amore di Dio tradotto in termini umani non si pone più il problema della necessità della preghiera, ma chiede luce sulla sua modalità. È il caso dei discepoli che attraverso Gesù hanno conosciuto l’amore di Dio, solo lui conosce veramente il Padre e può rivelarlo, si avvicinano al loro maestro e gli chiedono: “Signore insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. È evidente che nella domanda il “come” è riferito al tipo di rapporto che loro percepiscono di avere con Gesù, gli chiedono come maestro di insegnare a loro, discepoli. La risposta di Gesù è sorprendente, non è legata a un’idea, a un sentimento e tantomeno a uno studio su Dio, ma alla sua esperienza ontologica e concreta di Figlio, ecco perché la prima cosa che dice è: “Quando pregate dite: Padre”. Lui si è fatto uomo per tradurre in termini umani la paternità di Dio. Nel recitare la preghiera del “Padre nostro” non ci si deve mai dimenticare questa relazione e colui attraverso il quale essa ci viene comunicata e dentro il quale possiamo viverla: l’unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo. Questa preghiera è sicuramente anche una preghiera di richiesta, ma di una richiesta dove i bisogni dell’uomo e la volontà di Dio s’incontrano divenendo cosa molto buona.
È interessante notare, infatti, che Luca dopo la preghiera riporta due osservazioni di Gesù che esprimono questi sentimenti. Nell’insistenza dell’uomo inopportuno che chiede i tre pani, Gesù rivela la situazione di necessità, l’incapacità di procurarsi da solo quello che gli serve. Ciò che spinge il vicino ad alzarsi e a dare ciò che viene chiesto non è, infatti, l’amicizia ma l’insistenza e questa nasce da uno stato di bisogno. Nella seconda estensione del brano, viene ripresa e sottolineata la preghiera di richiesta, ma per collegarla alla bontà, sentimento che in questo caso non appartiene all’amico ma al Padre. La frase finale, nel suo apparente paradosso, “Se, dunque, voi che siete cattivi, sapete dare le cose buone ai vostri figli”, rivela la bontà del Padre, “quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”.
Quando l’uomo è disposto a chiede a Dio il bene, questo gli viene concesso immediatamente. Per essere in grado di riconoscere il bene da domandare la modalità è quella del povero, come sottolinea il ritornello del salmo 137, il rendimento di grazie e la lode sono gli alimenti che nutrono la povertà, il povero, infatti, non è colui che non ha niente, ma colui che vive la sua vita nella coscienza che tutto proviene dalla bontà di Dio e per questo, continuamente gli rende grazie lo loda e lo invoca.