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L’eredità di don Italo: “i poveri sono l’ottavo sacramento”

Don Italo e due ragazzi poveri

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Immagino l’incontro con Peppe Trapasso: don Italo lo aveva accolto appena adolescente. Una vita spezzata da tanta sofferenza quella di Peppe. Non era semplice stargli dietro e quotidianamente esprimeva il suo disagio diciamo con grande creatività. Don Italo, per incoraggiarci a stargli accanto, ci ricordava che i poveri sono tali perché non si fanno aiutare. Deve essere stato un incontro bellissimo, una conferma di ciò in cui don Italo ha sempre creduto: “i poveri sono l’ottavo sacramento” e ancora “i poveri sono Cristo, per loro le porte del paradiso saranno certamente spalancate”. Don Italo avrà rivisto con gioia Peppe, si proprio quello che ne combinava almeno una al giorno fino a fargli perdere la pazienza, ben vestito, sereno, senza i segni della povertà. Gli avrà detto: “caro Peppe vedi che siamo in Paradiso, non farti conoscere pure qua. Fai il bravo”. E poi, sempre sulla soglia del paradiso, don Italo si ritrova con tutti gli altri e le altre che ha servito: Maria, soprannominata “Ciaciola”, Cesare, Stefano, Salvatore, Agesilao, Ernesto e tanti altri.
A ventisei anni dalla sua morte, la sua presenza è ancora viva e continua ad accompagnare il nostro cammino quotidiano. Che dono di Dio grande avercelo fatto incontrare! Che grazia abbiamo avuto nel poter con lui condividere un bel pezzo di vita! Oggi nei nostri cuori arde la gioia per la volontà della chiesa reggina, espressa lo scorso 16 giugno dal vescovo padre Giuseppe Fiorini Morosini, “di iniziare quei passi necessari perché si possa compiere il primo atto ufficiale presso la santa Sede per iniziare in diocesi il processo per il riconoscimento eroico delle virtù di don Italo Calabrò, una delle figure più insigne di questa nostra diocesi, che egli ha servito con amore e la cui luce di santità egli riversa ancora su di essa”. Nella storia di don Italo in tanti hanno avuto un ruolo per la sua formazione umana e cristiana, certamente, un posto particolarissimo lo ha occupato Giovanni XXIII. Ma coloro che hanno inciso in maniera determinante per la sua conversione sono stati i poveri.
Quando venne eletto Giovanni XXIII, il Papa Buono, la sera del 28 ottobre del 1958, don Italo in diocesi ricopriva diversi incarichi. E proprio nel 1958, primo anno di pontificato del Papa Buono, don Italo ha modo di scoprire la terribile condizione dei malati mentali ricoverati nel manicomio di Reggio Calabria. Accompagnò un suo giovane amico medico per essere ricoverato. Il Signore irrompe nella vita di don Italo attraverso gli ultimi, gli emarginati che già aveva conosciuto ma che ancora non lo avevano, come lui ci diceva, messo in crisi. Ci disse che per lui fu un vero “pugno nello stomaco”, don Luigi Ciotti avrebbe detto “una pedata di Dio”.
L’incontro con gli ammalati mentali e con i più poveri, fece crescere in don Italo quella “fame e sete di giustizia” che lo spinse ad organizzare a partire dal 1968 con i suoi studenti del “Panella” tante iniziative per ridare dignità e giustizia a tanti poveri cristi. Un impegno finalizzato innanzitutto a far chiudere il manicomio e ad impedire nel frattempo che altri ammalati vi entrassero. I primi studenti del “Panella” accolsero la sfida di don Italo di fare la rivoluzione a partire dalla propria vita. Iniziarono a condividere la prima esperienza della Piccola Opera, e si costituì il gruppo dei Giovani Amici che in seguito diventerà il Centro Comunitario Agape: il senso di quella comunità voluta da don Italo, era innanzitutto vivere la condivisione con i poveri, lottare contro ogni emarginazione, rimuovere le cause delle ingiustizie.
Trasse l’energia e le motivazioni per lottare e sperare contro ogni speranza dalla preghiera, dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia. Don Italo è stato autentico uomo di Dio: con la sua vita ha saputo saldare il cielo alla terra, ha ridato speranza e ha testimoniato l’amore di Dio per i poveri. Ma oggi cosa ci direbbe? Come avrebbe colto le sfide nuove? Cosa avrebbe fatto rispetto alle migliaia di bimbi, donne e uomini che approdano sfiniti sulle nostre coste? Cosa avrebbe gridato per le migliaia che perdono la vita affogando nel mare? Certamente avrebbe dato risposte concrete – come quelle che i nostri volontari inventano all’arrivo delle navi cariche di immigrati – avrebbe richiamato alla loro responsabilità amministratori e politici, avrebbe chiesto alla Chiesa di essere fedele a Cristo e sempre accanto agli ultimi. Risuonano attuali ancora le parole di don Italo: “Non continuiamo forse a esaltarli a parole e a emarginarli, talvolta a snobbarli, nei fatti? Mi faccio carico come famiglia o persona di chi è in difficoltà?”.
Si tratta allora, ci diceva don Italo, di farsi inquietare la coscienza dalla grazia del Signore per non farsi vincere dalla sclerosi degli schemi mentali, dalla ricerca di ordine, di stabilità, di comoda tranquillità. La vita invece, ci ripeteva spesso don Italo citando il libro di Giobbe, è una lotta continua. In questi tempi difficili e duri per tanti nuovi poveri, facciamo nostro l’invito di don Italo, a lottare per e con gli altri. Non possiamo stare in pace, non possiamo addormentare la nostra coscienza.
Un prete santo, un testimone che ci ha aiutato a credere, a sperare a vincere la tentazione della rassegnazione e dell’indifferenza. “Protesi in avanti”, – ci diceva don Italo – “senza mai smarrire la speranza, nonostante le delusioni, i fallimenti, le sconfitte, le difficoltà che abbiamo conosciuto e che certamente dovremo ancora affrontare, ma uniti in fraterna comunione di vita con gli ultimi, solidali con tutti coloro, credenti o meno, che condividono questa scelta di vita, certi che il male si vince solo con il bene, che la vita prevarrà sempre sulla morte”.
Negli ultimi giorni la vita di don Italo si spegneva lentamente. Il suo corpo si faceva sempre più piccolo e fragile. Non parlava più. Non sorrideva. Non correva. Non ci richiamava. Non ci incoraggiava. Non celebrava. Non curava. Non consolava. Attorno a lui tutto sembrava soffrire. E tuttavia in quegli ultimi giorni della sua vita ha continuato a darci la lezione più importante, quella a cui teneva di più: credere che la vita è un dono di Dio da consumare a servizio dei fratelli con la consapevolezza che per portare frutti di pace e di amore, di liberazione e salvezza, bisogna fare l’esperienza del chicco di frumento che per rinascere a vita nuova deve morire.
Gli ultimi giorni della vita di don Italo, quelli dell’ultimo pezzo di strada più faticoso e umanamente incomprensibile, sono stati il sigillo alla sua santità. Tutto si compiva. E nell’ora della piena manifestazione del limite di ogni uomo, don Italo continuava in qualche modo a comunicare con noi. Mentre si spegnava il suo respiro, don Italo illuminava la nostra vita chiedendoci di credere e di accogliere l’invito di Gesù: “vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Credo che le ultime ore di don Italo siano state decisive per il suo passaggio nel paradiso e per tutti noi affinché continuiamo ad essere come lui ci voleva: servi inutili, testimoni umili, coerenti, coraggiosi. Consapevoli dei nostri limiti e della abbondanza di grazia che Dio continua a elargirci. Finché il Signore vorrà cercheremo di camminare sulla strada tracciata da don Italo, per noi padre, fratello, amico fedele.

Reggio Calabria, 12 giugno 2016
Mimmo Nasone