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L’espressione in discussione “secondo gli uomini” viene precisata più avanti nello stesso versetto: “Infatti io non l’ho ricevuto ne l’ho imparato da uomini ma per rivelazione di Gesù Cristo”. Nel tentativo di dimostrare questo, Paolo racconta quando e come ha ricevuto questo patrimonio e il cambiamento che questo dono ha provocato nella sua vita. Da persecutore accanito della chiesa diventa apostolo delle genti in virtù di una rivelazione, cioè di ciò che all’uomo in quanto tale, nella sua realtà di essere naturale, è semplicemente inaccessibile. Questa manifestazione comunica a Paolo che Gesù è il Figlio di Dio, questa notizia cambia completamente la sua vita, non è un cambiamento esteriore, ma profondo tanto da toccare il suo stesso essere: “E non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me”. Ecco, ciò che non era a misura di uomo perché era di Dio è diventato a misura di uomo perché nel Figlio incarnato l’uomo ha la possibilità di operare un cambiamento fondamentale nella sua vita.
Che l’irruzione di Dio nel mondo e la sua azione negli uomini produce un cambiamento totale viene confermato e raccontato dalle altre due letture. Il primo libro dei Re ci riporta un brano tratto dal ciclo di Elia, la presenza del profeta nella sua terra e nella sua casa, e il miracolo della farina e dell’olio non sono bastati per far capire alla vedova di Zarepta chi è quell’uomo mandato da Dio, anzi la malattia e la morte del figlio servono a rivelare l’incomprensione della donna nei riguardi del ruolo e della presenza del profeta: “Che c’è tra me e te uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?”. L’azione di Elia non serve solo a ridare la vita al figlio e a restituirlo alla madre, ma anche e soprattutto a dare la possibilità alla vedova di riconoscere il profeta; “Ora so che tu sei un uomo di Dio, e che la vera parola del Signore è sulla tua bocca”. Il brano ci racconta di due nuove vite, quella del figlio e quella della madre che ora sa che nella sua solitudine è entrata pienamente la presenza e la vita di Dio attraverso il profeta Elia.
Brano di rivelazione è anche quello evangelico, la situazione di sofferenza e impotenza rivela Gesù. La manifestazione è duplice, la prima riguarda i sentimenti di Gesù che rivelano pienamente la sua umanità, la seconda concerne l’agire del profeta che ne rivela la potenza divina.
Il primo momento è raccontato dal narratore: «Vedendola il Signore ne ebbe compassione e le disse: “ Non piangere”», la visione della solitudine esistenziale, dell’impotenza e della sofferenza della donna muovono le viscere di Gesù, il verbo usato esplanchnìsthe, aoristo passivo, infatti cerca di far capire che si muove in Gesù la parte più profonda della sua umanità, questo movimento non è controllato ma causato da qualcosa che corrisponde alle viscere stesse, la nascita della vita, in questo caso l’opposto, cioè la mancanza di vita che provoca la sofferenza. Questo stesso verbo lo ritroveremo nello stesso vangelo di Luca altre due volte, al capitolo 10, nella parabola del “Buon Samaritano” e nel capitolo 15 nella parabola del “Padre misericordioso”, in entrambi i casi, così come nel nostro brano, il verbo è legato strettamente a un altro verbo, vedere. L’evangelista li usa insieme creando nel lettore una specie di qualità di rimando che lega Gesù a due personaggi parabolici che fanno riferimento all’agire di Dio.
Nel secondo momento il narratore racconta i gesti e le parole di Gesù: «E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Giovinetto, dico a te, àlzati!». Il suo tocco ferma quello che l’uomo è costretto a portare con sé, la morte, e le sue parole hanno il potere di far continuare la vita. Questi gesti rivelano l’identità di Gesù che viene riconosciuto come un profeta mandato da Dio a visitare il suo popolo. La misericordia di Dio è diventata visibile nel volto di Gesù Cristo.