{module AddThis}La sequela evangelica non è una metafora o un paradigma ma un’azione concreta chiesta da Gesù ai suoi discepoli, un atto che richiede la capacità e la volontà di lasciare il punto di riposo per mettersi in movimento per raggiungere la meta. L’evangelista Marco annuncia subito la finalità attraverso la bocca di Gesù: Venite dietro a me e vi farò diventare pescatori di uomini” (1,17). Una meta, una persona, un movimento, la sequela prevede un cammino che conduce a una meta ma soprattutto Qualcuno che sa e vuole indicare, tracciare e percorre la strada con la sua stessa vita. Il percorso diventa così lo strumento che permette la rivelazione, il riconoscimento, la condivisione e la partecipazione. Il cammino prevede e offre soste in cui agli occhi e al cuore è data la possibilità di contemplare nel tempo la strada percorsa e quella che resta da fare, di considerare la fatica, per recuperare le forze e rinforzare la speranza. Uno sguardo che si nutre del dialogo ma che attraverso questo nutre il cuore perché è lì che il cammino diventa vita: “Abramo vattene dalla tua terra e va verso te stesso, in un paese che io ti mostrerò” (Gen 12,1). È quello che rappresenta la tappa di Cesarea di Filippo nel cammino di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme, il narratore al versetto 27 del capitolo otto si preoccupa di ricordarci che l’uscita è condivisa così come il cammino: “Gesù e i suoi discepoli partirono e lungo il cammino li interrogava ..”. Nel cammino l’insegnamento ha la forma del dialogo, Gesù interroga i suoi discepoli come ha fatto con il cieco dell’episodio precedente, si mette sullo stesso piano e attraverso le domande propone il suo insegnamento per gradi successivi. La prima domanda che esamina, infatti, non è fatta per conoscere, ma è orientata alla domanda successiva, le due domande invitano i discepoli a differenziarsi e a non pensare come le folle, ciò che conosce di Gesù la gente è diverso da ciò che conosce il discepolo. Il dialogo permette a Pietro e ai discepoli non solo di stabilire la distanza che c’è tra loro e la folla ma anche di percepire la distanza tra quello che loro hanno compreso e che in qualche modo vogliono imporre e la realtà dell’identità di Gesù riguardo al messianismo. Se la prima risposta di Pietro, infatti, fa cogliere la comprensione dell’identità di Gesù facendo vedere che il rapporto particolare di sequela li ha portati a riconoscere Gesù come Messia, solo la seconda risposta rivela la distanza che esiste tra i discepoli tra Gesù riguardo la natura di tale figura. La seconda parola di Gesù non è una riflessione sulla felicità o un insegnamento morale, ma una è parola che rilegge la vita stessa del protagonista e di coloro che sono alla sua sequela. È una parola che, come dice il Profeta Isaia, apre l’orecchio e a cui non bisogna porre resistenza, è una parola che guarda la vita come un servizio volontario in cui il sacrificio e la sofferenza non sono elementi di cornice ma l’essenza stessa, e sono presentate da Gesù come una necessità. Ed è questa necessità che richiede a Gesù di essere svelata apertamente, perché elemento essenziale della verità. Non così per Pietro che porta il peso della sua verità che gli impedisce, non solo di parlare apertamente, ma soprattutto di fare posto a questa realtà che gli è stata rivelata non come un’opzione ma come necessità. Prendendo in disparte Gesù, l’apostolo non si sostituisce a Gesù ma a Dio e come ci ricorda il Cardinale Martini “Pietro vuole salvare Gesù piuttosto che lasciarsi salvare da Lui”. A questo punto il narratore accompagna la reazione di Gesù raccontandoci il gesto che l’accompagna ed espone a tutti ciò che Pietro voleva regolare a parte. Dopo avere rivelato il suo volto invita Pietro e gli altri alla sequela ritornando a guardare le sue spalle per poterlo seguire. Realizza così la promessa di Esodo 33, Gesù è il volto di Dio che cammina davanti a noi. Gesù invita i discepoli a riprendere il cammino, non per trovare da soli la strada giusta ma perché attraverso la sequela possano trovare e realizzare il senso della vita.