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L’eternità e l’atto del credere

Misericordia

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Possiamo considerarla come il naturale approdo della vita terrena, o addirittura apparire come strumento di castigo del peccato. Ma c’è in’altro modo per considerare la vita è la morte?
Sì, ed è questa la luce che ci porta la liturgia della parola, ci dice che la nostra vita, e di conseguenza la nostra morte non solo possono essere guardate in modo diverso che queste due realtà possono cambiare se in questo cammino nello spazio e nel tempo incontriamo il Figlio unigenito donato dal Padre. In Lui, ci ricorda S. Paolo nella lettera agli Efesini, da morte che eravamo per i peccati ci ha fatto rivivere, rivelando la ricchezza della sua misericordia e la grandezza del suo amore. Da lui solo e con il suo innalzamento nasce la possibilità di questo incontro in cui la morte è sconfitta e se anche si presenta davanti a noi come un passaggio ancora necessario, proprio in Cristo la necessità diventa atto funzionale alla vita eterna. In Lui e solo in Lui ciò che appariva come giudizio, condanna e castigo diventa atto d’immenso amore e di piena donazione del Padre.
È interessante che quest’amore incommensurabile viene quantificato a favore della nostra comprensione, solo attraverso e computato in modo paradossale, l’uomo può spogliarsi dalle sue infedeltà e abbandonarsi all’accoglienza. La quantificazione nasce dall’unificazione da una parte del peccato umano, acuito dalle mancate conversioni, che non può essere indicato come motivo di vanto e nemmeno contribuire a esso, dall’altra dall’amore gratuito di Dio, amplificato dalle sue fedeltà, capace di dare ciò che ha di più prezioso a chi, di fatto, non può fare niente per meritare. Solo da un atto divino che paradossalmente congiunge le morti, quella del Figlio e la nostra, nasce la pienezza della vita, l’eternità.
E così come solo da un atto Dio nasce per noi la possibilità dell’eternità solo da un atto corrispondente umano quest’azione può diventare in noi realtà, l’atto del credere. Quella disposizione di cui Signore stesso ci ha fatto dono diventa strumento di accoglienza dell’amore divino. La fede come dono che nasce nel momento stesso in cui annunciato che Gesù è stato innalzato per rompere il muro di separazione che l’infedeltà e l’ostinazione umana ha creato; la fede come atto dell’uomo che nasce dall’ascolto obbediente e accogliente dell’azione congiunta del Padre che manda e del Figlio che obbedisce.
Obbedienza che caratterizza tutta la missione storica del Figlio ma che appare soprattutto nella morte sulla croce. Condizione, quindi, per passare dalla morte alla vita resa possibile dall’amore efficace di Dio è l’accoglienza del suo dono per eccellenza: “Credere nel Figlio unigenito”, non una limitazione del processo salvifico innescato dall’amore di Dio, ma una sua successiva qualificazione. L’accesso alla vita intesa e voluta da Dio avviene nell’adesione del suo Figlio unico e amato. Un Figlio portatore ed espressione di salvezza e non di condanna, il giudizio e la condanna, infatti, non nascono dall’iniziativa di Dio ma da una mancanza di risposta dell’uomo, che non crede la morte del Figlio come atto di amore, in questo modo non è capace di accoglierlo come tale, e il risultato è che rimane nelle tenebre. Così facendo, cioè non credendo non fa altro che rivelare le sue opere malvagie. La mancanza di fede diventa testimonianza di un legame con il male non più come qualcosa che dall’esterno ci tenta o ci opprima ma come una scelta.