{module AddThis}
Il libro dell’Esodo ci porta lì, dove lo spazio lo spazio ferma il tempo e ci regala la possibilità di ascoltare chi è al di là dello spazio e del tempo, colui che vuole agire nello spazio e nel tempo per trasformare coloro che vivono in queste categorie. Lo strumento del cambiamento è la sua parola, anzi in questo caso le sue dieci parole che ci indicano il cammino della comunione. Tra queste si erge, come un faro sul monte e nella notte piena e confusa, il terzo comandamento che ci illumina e ci dà la capacità di cogliere e osservare le altre nove parole. È il comandamento del tempo che ci conduce a Dio, il tempo che Dio ha riservato a noi per Lui e a Lui per noi, il tempo che ci permette di non cadere nella tentazione dell’idolatria dando il valore corretto ai sei giorni delle opere delle nostre mani. Ma è anche lo stesso terzo comandamento che ci conduce all’uomo affinché possiamo amare ciò che nello spazio e tempo il Signore ci offre.
Un Dio generoso che dona, lo stesso Dio geloso che chiede, che chiede di osservare lo spazio sacro dell’incontro e che, poiché è stato occupato, ha mandato suo figlio a liberarlo e trasformarlo. È, infatti, la gelosa bontà di Dio che Gesù rivela nello zelo del gesto che solo apparentemente può sembrare arbitrario e aggressivo, ma che in realtà vuole smascherare e denunciare l’infedeltà dell’uomo e nello stesso tempo associare il Figlio alla causa del Padre. Quello che conta non è solo l’effetto dell’azione ma il suo significato che viene svelato dalle parole che accompagnano il gesto, esse alludono a brano del profeta Zaccaria (14,1-21) in cui l’autore sacro descrivendo il “Giorno del Signore” annuncia quando il Signore verrà a Gerusalemme. Narrativamente il vangelo di Giovanni descrive la prima visita di Gesù alla città santa proprio in quest’occasione e colloca l’azione di Gesù sullo sfondo di questa tradizione profetica che da una parte denuncia la deformazione del culto e dall’altra ne annuncia la trasformazione.
Attraverso le parole di Gesù e il successivo dialogo siamo chiamati a riflettere sull’effettivo valore che dobbiamo dare al “tempio” come luogo dell’incontro con Dio. Se, infatti, il narratore ci parla di quest’area sacra indicandola con il termine greco “hieron”, Gesù, invece, dal primo momento la qualifica con riferimento esplicito a se stesso, “Casa del Padre mio”, e quando vien provocato sull’autorità del gesto completa la trasformazione del significato e il riferimento a se stesso indicando lo spazio sacro con il termine “naos”, l’area più intima del tempio, sfidando i giudei a distruggerlo per dargli la possibilità di poterlo innalzare di nuovo. La metafora è velata fino a un certo punto giacché il verbo usato non è costruire o edificare ma erigere che si adatta bene sia al corpo sia al tempio e che è lo stesso verbo per indicare la risurrezione.
La parte finale del brano è la riflessione dell’evangelista che lega il gesto, il significato e l’interpretazione alla fede. E sembra proprio che da questa il “nostro tempio” venga trasformato per il vero culto. L’ultimo versetto volutamente non è molto chiaro, tra le altre sono possibili due interpretazioni: 1) Gesù non crede alla fede di questi uomini perché l’ammirazione di fronte a un uomo che compie miracoli non è ancora fede nella Parola incarnata; 2) Gesù non si fida perché sa che la fede è un cammino non uno sbocco. In ogni caso quello che il brano ci vuole comunicare è che l’uomo ha bisogno di uno spazio per comunicare con Dio, lo spazio fisico richiede di essere liberato perché in quello spazio simbolico il “Santuario di Dio” possa far nascere il “tempio di Dio” che siamo noi.